Stefano Tesi 18 dicembre 2017
(Nella foto: il Re Umberto II alla tomba del Re Vittorio Emanuele III ad Alessandria d’Egitto)
In Romania ali di folla accolgono le spoglie di Michele I, l’ultimo re. In Italia polemiche di bassissima lega accolgono quelle di Vittorio Emanuele III, morto 70 anni fa. Quando se ne parlava poco o punto, io quella tomba ad Alessandria d’Egitto l’ho visitata.
Mentre in Romania migliaia di persone e decine di reali o ex reali europei rendono omaggio al ritorno delle spoglie di Michele I, l’ultimo sovrano rumeno, in Italia infuria una polemica ideologica, di bassissima lega, sul rientro in patria della salma – sottolineo la salma – di Vittorio Emanuele III, morto il 28 dicembre del 1947. E la mia memoria corre allora a quando, quasi vent’anni fa, ad Alessandria d’Egitto andai a portare il mio sommesso, personale saluto al Re Soldato.
Da italiano, a prescindere dalle simpatie, lo ritenevo più che un atto dovuto. Inoltre, giornalisticamente parlando, mi affascinava l’idea di andare a respirare l’aria attorno a quella tomba, nel cuore di una città al tempo stesso vibrante e indolente come l’Alessandria a cavallo dei due millenni.
Non voglio imbarcarmi ora in uno sterile giudizio storico nè politico, che relego nel novero degli esercizi patetici: a settant’anni dalla morte, ognuno pensi di quel Re ciò che vuole. Vorrei solo – utopisticamente, lo so – che la vicenda rimanesse estranea alle strumentalizzazioni e ai vaniloqui mediatici a cui invece stiamo già assistendo.
Comunque, andò così.
Era, mi pare, il 2000.
E col collega Aldo Pavan eravamo stati inviati a fare un reportage sulla nascente Bibliotheca Alexandrina. L’indagine, però, presto si estese: gli scavi archeologici in corso, le tante suggestioni letterarie, la comunità italiana o ciò che ne restava. Ero partito, lo ammetto, già con l’idea di visitare il sepolcro reale, ma dopo una serie di risposte (forse comprensibilmente) evasive ricevute in merito dal nostro consolato, il mio proposito divenne certezza.
Come è ovvio andai a piedi, partendo dalla Corniche in direzione di Attarine. Avevo solo una vaga idea di dove fosse la cattedrale cattolica di Santa Caterina, tenevo la mappa cittadina, tutta scarabocchiata, in mano. Dopo un po’ di giri a vuoto nell’atmosfera che solo chi ha conosciuto la città di allora può immaginare, eccomi, quasi di colpo, lì davanti: un edificio biancheggiante, sobrio in definitiva, assai meno imponente di quello che avevo immaginato. Appannato, come tutto del resto: i marciapiedi, le insegne, le vetrine, le case erano coperte dall’impalpabile, inconfondibile pulviscolo egiziano. Quasi nessuno intorno, proprio nessuno dentro.
Superai la porta cigolante e entrai piano, sospeso tra timore e rispetto, ancora una volta senza riuscire a immaginare cosa avrei trovato davvero. Guardai in giro, aspettandomi magari lapidi solenni e labari sabaudi.
Trovai invece una chiesa spoglia, avvolta nella penombra, con le file delle sedie, qualche ronzante ventilatore sgangherato, una luce violenta che filtrava troppo verticale dalle finestre senza riuscire a illuminare bene la grande navata.
Del Re Soldato, nessuna traccia.
Per un attimo ebbi paura di aver sbagliato chiesa ma, no, non è possibile. Nuovo sguardo alla cartina. Il posto era giusto.
Avanzai a passi lenti, scrutando il pavimento in cerca di una pietra tombale e le mura in cerca di un segno. Che però non c’erano. O io almeno non li vidi.
Ero insomma nel luogo in cui era stato sepolto il penultimo Re d’Italia, ma lui dov’era?
Arrivai infine davanti al grande altare. Mi pare fosse di marmo. Il crocifisso, i candelabri. Buttai lo sguardo in alto, ma vidi solo l’emisfero chiaroscurale della cupola.
Ancora più esitante, l’aggirai.
E lì, scolpita sulla lastra o forse solo incisa su un intonaco di gesso, ora non mi ricordo bene, trovai la scritta in caratteri romani: “Vittorio Emanule di Savoia, Re d’Italia, 1869-1947“. Era insomma una tomba defilata, polverosa e un po’ dimenticata. Le lettere del nome, ripassate di nero, in qualche punto avevano perduto il colore. Non c’era altro, nè un fiore, nè un simbolo. Solo la solita patina pulviscolare che ad Alessandria permeava ogni cosa, quasi il sintomo che il genius loci cittadino aveva pervaso anche quel sepolcro rimasto sprofondato in una città divenuta di provincia. La quale, improvvisamente, mi apparve al tempo stesso troppo esotica e troppo italiana.
Rimasi a lungo, immobile e attonito, a guardare l’intitolazione. La chiesa era sempre deserta. Ebbi per un attimo perfino l’istinto di mettermi sull’attenti, poi di fare un saluto militare che, lo riconosco, non mi sarebbe appartenuto. Ma mi trattenni. Decisi di non fare nulla. Eppure faticai a staccarmi da quel luogo che pareva risucchiato nel fondo di una voragine metafisica: un retroaltare, una retrotomba, una retrostoria.
Fui preso allora da un’enorme tristezza ed è questa la cosa che meglio ricordo di quel giorno. Una tristezza pesante, plumblea, che andava al di là del tempo e della situazione, al cospetto di quel piccolo Re dal grande nome, forse troppo piccolo per reggere il peso di sè e finito malinconicamene ai margini di tutto, tra gli sberleffi, le condanne, le cronache scritte dagli altri, le opposte retoriche, le nostalgie, le miserie.
Non era affatto di moda, allora, Vittorio Emanuele III. Anzi, era assai impopolare, sempre ammesso che qualcuno si ricordasse di lui se non per luoghi comuni e rigurgiti d’ideologia.
Mi tornarono in mente la diaspora sabauda, la Regina Elena a Montpellier, il figlio a Cascais, il nipote a Ginevra.
In quella tomba, Vittorio Emanuele III sembrava immobile, inamovibile, come incatenato da un incantesimo divino.
Ora che dunque è tornato, e a prescindere da ogni altra cosa, benvenuto al Re.